Una vita da Califfo.
novembre 12, 2010
La prima volta che vidi Franco Califano di persona fu nell’autunno 1982, in un dancing tra Rimini e Cesena ove si esibiva dal vivo. Mia sorella e i suoi amici prenotarono ben due tavoli affiancati, dato che erano in parecchi. Portarono anche me, a mo’ di mascotte recalcitrante: avevo poco più di diciassette anni e avrei preferito vedere dal vivo gli Human League. Mia sorella mi redarguì: le persone di cultura sanno vedere tutto. Gli orari eran diversi da quelli di oggi: ingresso alle 21.00, inizio concerto alle 21.30. Alle 21.35 la band sul palco attaccò La mia libertà. Di Califano nessuna traccia. La musica procedeva. Si fecero le 21.40. Alle 21.45 si aprì una porticina su un corridoietto laterale, che sbucava proprio vicino ai tavolini dove stavamo noi. L’unica cosa illuminata era il palco: mica come adesso, che a botte di normative per la sicurezza ti si illumina anche lo schienale del divano. Comparve il Califano: o meglio, la sua sagoma , che procedeva verso il palco a passo ultraspedito, nell’oscurità più assoluta. A metà corridoietto, la sagoma non vide uno scalino infame. Fece un volo dell’ostia. Planò sul tavolino di fronte al nostro, travolgendo spettatori e bicchiereria varia. La bestemmia orcamad.. mortacci si udì abbastanza bene. La band dal palco vide e rise, senza interrompere la musica. Anche noi eravam piegati dal ridere. Mia sorella mi diede di gomito: vedi te, che non volevi venire? Ci fu un gran viavai di camerieri, che ripulirono alla meglio ospiti, cocci e Califano. Il quale Califano, pur inebetito, faceva il signore. Anzi: il signò. Strinse la mano a tutti i travolti, si scusò per sti cazzo de tavolini ne’ cojoni, sfoderò una banconotona ( era buio, ma capimmo dalle facce dei camerieri che era un centomila dell’epoca, probabilmente appena ricevuto dal titolare del locale quale parte del cachet in nero ) e disse al personale: a questi amichi je date du’ ggiri gratise che j’offre er califfo.
Indi saltò sul palco, accolto da applausi, fischi e grida orgasmiche di alcune attempate invasate a bordo pista. Portata a termine La mia libertà, sorta di manifesto programmatico, proseguì con Semo gente di borgata. Poi cantò Fesso proprio no. Si scatenò con La seconda, che dedicò a tutti quelli che c’hanno a moje che njè basta a’ prima, ‘ste ddonne nun capiscono che t’ha sei gggià sparata co’ quarche pischella. Ovviamente fece Tutto il resto è noia. Il tono era confidenziale: arringava le signore in sala dedicando loro una cover di Ancora di Mina, con le opportune correzioni. Un trionfo. Qualche anno dopo lo rividi. Ma non un in un locale. Sui viali di Bologna, in primavera. Ero con altri amici in macchina, un fuoristrada alto . A un semaforo ci si affiancò una Porsche rossa scapottata. Califano alla guida, biondona coscalunga vistosissima al fianco. Notò che lo guardavamo dall’alto: più la biondona che lui, tra l’altro. Ahò, cazzo state a guardà, disse ridendo, piazzando una tastata sulla coscia della biondona. Partì sgommando, quando ancora era rosso. Evitò di striscio un pullmino che curvava. Ci salutò con la mano aperta. Era il 1986.
State bene.
Ghino La Ganga